La paura di ciò che non c’è

Aspetti cognitivi dell’ansia anticipatoria

La paura è un’emozione che si manifesta nei confronti di un pericolo percepito oggettivamente come minaccioso, sperimentata dalla maggior parte delle persone. E’ funzionale, in senso stretto, alla sopravvivenza degli individui ed è per questo che evolutivamente è stata conservata. Essa genera delle risposte di attacco o fuga legate all’attivazione del sistema nervoso simpatico, nello specifico dell’amigdala, una piccola porzione del cervello che fa parte del sistema limbico. L’amigdala è implicata nei processi di valutazione delle situazioni e ci prepara ad affrontare (o scappare) da quelle ritenute pericolose per la nostra sopravvivenza. La fobia, in senso più specifico, si riferisce alla paura di un pericolo soggettivo, che non è valutato come minaccioso da tutti e che, proprio per questo, si differenzia dalla paura in generale. Esistono diversi tipi di fobia, da quelle dell’infanzia tipicamente sperimentate dai bimbi a quelle più specifiche anche in età adulta (fobie degli animali, di oggetti, di parti del corpo, situazionali etc). L’ansia, che ritroviamo anche nelle situazioni di paura e fobia, è una reazione emotiva ad una situazione percepita come minacciosa che si manifesta con sintomi fisiologici spiacevoli, i quali possono essere anche intensi. Ecco perché le due cose spesso viaggiano sullo stesso binario.

Ho l’ansia di avere paura

L’ansia non sempre si manifesta in presenza di uno stimolo ritenuto minaccioso, spesso anzi si manifesta in assenza di quello stimolo: l’ansia anticipatoria, relativa ad eventi che temiamo possano verificarsi, o siamo certi si verificheranno, ha un’enorme potere nel condurre le persone ad evitare le situazioni temute ed in questo senso rinforza la paura stessa.

Se so che avrò paura, mi sento in ansia, così metto in atto una serie di comportamenti per evitare di dover fronteggiare la situazione temuta e, quindi, per evitare di sentirmi in ansia.

Fondamentalmente dietro i disturbi d’ansia si osserva la difficoltà dei pazienti di sopportare i sintomi fisiologici legati all’ansia stessa e, al tempo stesso, la tendenza a porre su di essi molta attenzione sempre nel tentativo di controllarli: tuttavia questa focalizzazione attentiva sulle sensazioni corporee altro non fa che potenziarle, distorcendone l’interpretazione. Contemporaneamente, nei processi di evitamento messi in atto, l’ansia diminuisce: la persona avrà pertanto imparato che evitando la situazione temuta si è sentita meglio. Questo processo è particolarmente forte nell’ansia anticipatoria ed è il motivo per il quale spesso i disturbi d’ansia finiscono per vincolare tanto il funzionamento della persona nella sua vita. Vediamo come:

Se una persona sperimenta ansia in presenza di una situazione temuta che è presente in quel momento, in linea di massima potrebbe evitare la situazione nel momento stesso in cui si manifesta:

stimolo: cane (che mi fa paura)

situazione: incontro il cane, avverto un disagio, penso che ho paura.

risposta: cambio strada.

La volta successiva la persona, sapendo che deve recarsi nello stesso posto, si ricorda che ha incontrato il cane, così inizia a pensarci anche quando è comodamente seduta sul divano di casa: ripercorre nella sua mente i momenti in cui ha avuto paura e inizia a pensare che sicuramente il giorno dopo, facendo quella strada, rincontrerà lo stesso cane (oppure un cane, nei casi di fobia specifica). Il cane non è presente, eppure l’ansia c’è. L’unico modo per smettere di avere ansia sembrerebbe proprio quello di decidere, già da ora, di non recarsi in quel posto, oppure cercare strade alternative, magari facendo tardi e di fatto impegnando tempo e risorse per evitare una situazione temuta: la persona si calma non appena avrà la certezza , nella sua testa, che non incontrerà il cane. L’evitamento qui è su più livelli, poiché il soggetto tenderà ad evitare qualunque situazione lo possa condurre alla possibilità di incontrare lo stimolo fobico.

Intervento

Perché un intervento su un disturbo d’ansia sia efficace, occorre effettuare un buon assessment, definendo e circoscrivendo il problema, ma anche le risorse e le abilità che la persona possiede. Ciò è fondamentale prima di passare alla fase successiva, poiché sapere da che livello una persona parte permette di costruire un intervento mirato e individualizzato, nonché coerente con gli obiettivi che vogliamo raggiungere con il paziente.

Il trattamento cognitivo-comportamentale risulta particolarmente efficace nei disturbi d’ansia e prevede l’analisi delle distorsioni cognitive, ovvero le interferenze che attivamente influenzano i pensieri e, quindi, i comportamenti del paziente, nonché la loro messa in discussione, anche tramite prove comportamentali. Queste ultime sono fondamentali per lavorare sulla consapevolezza che la persona ha circa le proprie abilità/risorse, spesso sottostimate perché mai messe realmente alla prova soprattutto nei casi in cui il problema sia cronicizzato.

Fondamentale resta una solida alleanza terapeutica, base anche per una buona aderenza alla terapia.

“Gran parte della mia vita è stata spesa a preoccuparmi di cose che non sono mai accadute.” Mark Twain.

Cibo e regolazione emotiva

Quando il cibo regola le emozioni, oltre la fame: il contributo psicologico alla nutrizione

Il rapporto tra cibo ed emozioni è un argomento oramai attuale, molti sono stati e sono tuttora gli studi che spiegano come il modo in cui ci approcciamo al cibo la dice lunga su come stiamo. Uno degli aspetti più interessanti dell’alimentazione è come questa sia in grado di influenzare lo stato emotivo degli individui, ma anche di essere influenzata a sua volta dallo stato mentale. Ciò che è ancor più rilevante è che questo stretto legame si definisce nei primissimi anni di vita del bambino.

Il cibo come premio o punizione

I cibi non sono tutti uguali, è risaputo e abbastanza ovvio che esistano cibi maggiormente accattivanti soprattutto per i più piccini, tanto da diventare, in alcune famiglie, parte integrante del pasto, soprattutto lo spuntino. Proprio la natura di alcuni cibi dolci, anche e soprattutto in termini di consistenza (morbida perlopiù) li rende adatti a diventare dei regolatori del comportamento, utilizzati come rinforzo al fine di convincere il bambino ad adottare una certa abitudine. Il bambino in questo modo viene premiato tramite la possibilità di ottenere un alimento gustoso, oppure punito, quando questo alimento gli viene sottratto o sostituito con uno meno gradito. Questa tipologia di approccio al cibo (che di solito si osserva radicata nella famiglia di origine) insegna al bambino due cose:

  1. i cibi che mi piacciono sono gli stessi che mi fanno bene;
  2. il cibo risolve i miei problemi.

Nel primo caso, infatti, il bambino attribuisce ai cibi ricchi di zuccheri (di solito quelli più utilizzati come deterrenti per rinforzare un dato comportamento o ridurne un altro) quelle proprietà benefiche che in realtà non hanno, oltre al fatto che proprio perché così buoni rischiano col tempo di attivare in modo anomalo circuiti neuronali deputati alla ricompensa, creando quel famoso fenomeno per cui “zucchero chiama zucchero”: quanti più cibi dolci mangiamo tanto più ne abbiamo bisogno, con ovvie compromissioni sulla salute.

Nel secondo caso il discorso diventa meramente psicologico, ovvero “il cibo non regola la mia fame fisica, ma la mia fame psichica“. Se infatti per avere il mio cibo preferito devo comportarmi in un certo modo, significa che IO MERITO quel cibo solo se mi comporto bene; se mi comporto male imparo a privarmene. Il cibo smette così di essere un modo per nutrirsi e sfamarsi, diventa invece un regolatore di emozioni e comportamenti e questo può creare, in alcuni individui e in associazione a più circostanze, terreno fertile per l’instaurarsi di disturbi alimentari.

L’alimentazione consapevole

Ciò che fa diventare il cibo una risorsa è la possibilità di sceglierlo consapevolmente, non in base a ciò che in quel momento sentiamo possa appagare un bisogno emotivo, (poiché la fame NON è un bisogno emotivo, bensì fisico), ma in base a ciò di cui il nostro corpo ha bisogno per nutrirsi. Naturalmente, affinché questa consapevolezza esista, la persona deve aver imparato a distinguere un bisogno fisico da un bisogno emotivo. I soggetti in cui questa consapevolezza manca, hanno imparato invece a regolare le loro emozioni tramite ciò che mangiano ed è frequente osservare che il più delle volte ciò che mangiano (e il modo in cui lo fanno) riflette esattamente ciò di cui hanno immediatamente bisogno. Ecco allora che i cibi dolci tornano ad essere sinonimo di affetto, attenzioni; i cibi dalla consistenza morbida un bisogno di contatto e sensibilità; ingurgitare velocemente il cibo senza masticarlo può riflettere un bisogno estremo di colmare un vuoto, mentre eventuali condotte eliminatorie dopo (frequenti in pazienti bulimiche e talvolta anoressiche) evidenziano il senso di colpa per aver “ceduto” ad un bisogno psico-fisico.

Ecco allora che la consapevolezza, intesa come conoscenza di se stessi, capacità di autoregolarsi e delle proprietà nutritive dei cibi, diventa la chiave per una sana alimentazione, propedeutica per l’inizio e il proseguimento di una dieta alimentare.

La stretta correlazione tra psicologia e nutrizione rafforza la necessità di una presa in carico globale dei pazienti, in un’ottica multidisciplinare e collaborativa.

Ti fa arrabbiare o scegli di arrabbiarti?

Fino a che punto non possiamo scegliere come stare?

Capita spesso, ascoltando le persone, di sentire la stessa frase: “questa cosa mi fa arrabbiare”; “lui/lei mi fa arrabbiare”. Molto più raramente capita di sentire “mi sento/mi sono arrabbiato/a”. La gestione emotiva si sviluppa sin dall’infanzia, tramite il rapporto con le figure di accudimento e caratterizza in modo sostanziale il modo in cui andremo a relazionarci con le altre persone. La capacità di controllare e gestire le proprie emozioni, tra cui la rabbia, presuppone anzitutto la possibilità di riconoscerle, ovvero riconoscere e accettare che stanno facendo parte di noi, sono nostre, le stiamo provando proprio noi.

Questo passo, seppur banale, è estremamente difficile, poiché presuppone a sua volta ammettere che qualcosa, o qualcuno, stia toccando in qualche modo una parte di noi evidentemente sensibile e fragile.

Significa di fatto accettare che per noi QUELLA COSA è importante.

Allora molto spesso la via più facile sembra quella di giustificare le nostre emozioni con i comportamenti e gli atteggiamenti degli altri, addossando di fatto a loro la colpa di ciò che stiamo provando. La frase “quello che hai fatto mi ha fatto arrabbiare” diventa un atto di deresponsabilizzazione: “è colpa tua se mi sono arrabbiato”. Di fatto però, significa anche dire, implicitamente: “la mia emozione dipende da te, non da me” e questo si ripercuote sulla possibilità di controllare la rabbia, poiché sembra provenire dall’esterno, piuttosto che da una nostra visione delle cose.

Ciò dipende dalla difficoltà di guardare la nostra emozione come il risultato del modo in cui noi stiamo percependo quell’evento, non dipendente solo dagli altri. Capire che quella emozione appartiene a noi e nasce da noi, aumenta la possibilità di gestirla e controllarla, poiché toglie all’altro il potere del determinarla.

L’accettazione delle emozioni in generale e della rabbia in particolare come dipendenti e derivanti da noi, ha anche un altro indubbio vantaggio: permette di scegliere come reagire ad un determinato evento. Pertanto capire che un certo evento SU DI NOI ha scatenato una reazione, sposta il focus dall’azione dell’altro sul nostro vissuto e ci offre la possibilità di concentrarci sulle visioni alternative che una situazione può avere. Un esercizio quotidiano per fare ciò, può essere quello di chiederci, ogni qualvolta ci sentiamo feriti e arrabbiati per le parole o le azioni di qualcuno:

  • “Cosa mi sta dando davvero fastidio?”;
  • “Quanto mi condiziona l’opinione di questa persona?”;
  • “Posso scegliere di sentirmi meno arrabbiato?” ——-> ne vale davvero la pena?
  • “C’è un’alternativa alla rabbia che sto provando?”
  • “Quanto sono obiettiva nel giudicare le azioni di questa persona?”

Queste domande stimolano l’introspezione e aiutano a riprendere controllo sulle nostre emozioni, dandoci una visione più chiara e obiettiva di ciò che sta accadendo. Così potremmo renderci conto che quella frase che tanto ci ha ferito, era magari dovuta ad un errore di interpretazione, oppure ad una nostra errata percezione di quello stimolo. Anche qualora l’evento fosse davvero fastidioso per noi, perché effettivamente negativo, avere una visione più chiara e obiettiva dell’accaduto, diminuisce l’arousal e ci aiuta a comunicare le nostre emozioni nel modo migliore possibile a chi abbiamo di fronte.