Categoria: Attualità e informazione
La responsabilità professionale nei momenti di emergenza

“Nessuno è immune alla paura, ma ne siamo tutti responsabili”
In un momento come quello che stiamo vivendo vi è la necessità di rivalutare e reinterpretare i ruoli delle diverse professionalità coinvolte nella gestione dell’emergenza e della crisi, oramai, mondiale.
Se esiste infatti una responsabilità personale, individuale e sociale, intorno alla quale ruota se vogliamo il decreto imposto in data 11 Marzo 2020, è vero anche che esiste una responsabilità professionale, che risponde a questioni etiche e deontologiche le quali a volte possono, apparentemente o meno, colludere con quelle personali.
Tutti coloro che in questi giorni difficili, quasi surreali, stanno lavorando in attività di ricerca, terapia, sostegno e prevenzione, con il fine di contrastare l’avanzare del COVID-19, hanno anche un’altra enorme responsabilità: quella di prevenire, contrastare e scongiurare il più possibile l’insorgenza di conseguenze psicologiche e comportamentali gravi. L’epidemia di massa ha il potere, potenzialmente, di slatentizzare patologie pregresse, quali ossessioni e compulsioni, panico, agiti auto ed etero aggressivi e tutte le problematiche legate ad una mancata gestione dell’ansia e della paura.
Come professionisti sanitari abbiamo un ruolo importante nella gestione, nel monitoraggio e nella verifica non solo delle informazioni che vengono diffuse, ma anche della modalità con le quali esse vengono comunicate. Noi psicologi siamo impegnati, in questo particolare momento, a prestare ancora più attenzione di quanto siamo già chiamati a fare, a cosa e come viene detto ai nostri pazienti. Siamo chiamati a tenere a mente la sottile differenza che intercorre tra l’informare e l’allarmare le persone. Questo perché una popolazione informata e che si percepisce protetta, è una popolazione maggiormente collaborativa e responsabile. Una popolazione allarmata e confusa da notizie spesso contraddittorie diventa un pericolo per se stessa e per gli altri.
La nostra responsabilità professionale, allora, sta nel comprendere i dati univoci e comunicarli con chiarezza, ma con empatia, ricordando che nessuno è immune alla paura, neanche noi che lavoriamo costantemente con le emozioni degli altri.
E la nostra paura è, adesso, anche una grande alleata, poiché ci permette di sintonizzarci gli uni con gli altri, prevedere e prevenire eventi incontrollati e incontrollabili. Ma è necessario riconoscerla e accettarla. Ecco allora che la nostra responsabilità professionale non può prescindere da quella personale: il riconoscimento del nostro limite umano ci mette nelle condizioni di comprendere e accettare il limite degli altri esseri umani.
Resta fondamentale filtrare le notizie effettivamente utili, certe, comprovate e trovare le migliori strategie e modalità per veicolarle alla popolazione. Resta fondamentale adattare il lavoro al nuovo decreto, rispettando le restrizioni imposte dal Governo e cercare quel delicato equilibrio che ci permetta di tutelare la salute psicologica dei nostri pazienti senza sacrificare quella fisica. In questo la tecnologia e la modalità di consulenza a distanza può tornarci utile. Teniamo a mente che la salute della collettività passa, ora più che mai, dalla salute del singolo cittadino.
Il rispetto per gli altri non può prescindere dal rispetto per se stessi.
Buon lavoro a tutti.
Attacco di panico o ansia?
Caratteristiche diagnostiche dell’attacco di panico: quando l’ansia è troppa

Negli articoli precedenti abbiamo parlato dei disturbi d’ansia e abbiamo visto come i sintomi principali dell’ansia siano cognitivi ed emotivi (pensieri irrazionali negativi, evitamento, irrequietezza) e fisici (iperattivazione fisiologica, tachicardia, sudorazione etc). Tutti questi sintomi hanno una matrice evolutiva importante, ovvero sono stati selezionati per garantire al corpo di attivarsi in presenza di un evento stressogeno. L’ansia è spesso esperita tramite sintomatologia fisica, tanto che può essere facilmente confusa, in presenza di una scarsa consapevolezza da parte dei pazienti, con malattie fisiche e cardiache in particolare.
Ansia di stato e ansia di tratto
Da un punto di vista clinico esistono due tipologie di ansia: quella di stato, esperita in situazioni che effettivamente attivano l’organismo e che possono essere definite stressanti e quella di tratto, slegata dal pericolo reale ed esperita in modo praticamente costante, proprio come fosse un tratto della personalità. A differenza della prima, che quando non eccessiva è anzi utile a fronteggiare gli eventi, la seconda è maggiormente vincolante per chi la esperisce, poiché appare in effetti non solo sproporzionata rispetto al reale pericolo, ma per un tempo significativo.
Questa distinzione è importante per capire la differenza tra ansia e attacco di panico. Talvolta i pazienti non sono in grado di comprendere cosa provano e definiscono panico un semplice attacco d’ansia, magari molto intenso. l’attacco di panico è in realtà, per chi lo ha provato, praticamente impossibile da confondere con una semplice ansia generalizzata.
Sintomi dell’attacco di panico
La sua comparsa è sempre improvvisa e si manifesta con una sensazione di paura, quasi di terrore e disagio intensi, con una costellazione di sintomi perlopiù somatici quali: palpitazioni, tachicardia, sudorazione profusa, tremori, sensazione di non riuscire a respirare, dolore/fastidio al petto, vampate di calore o brividi di freddo, vertigine, dolori addominali e nausea, sensazioni di formicolio ed episodi di derealizzazione/depersonalizzazione (sensazione di irrealtà e di distacco dalla realtà). Si associano paura di perdere il controllo e di morire, in presenza della sensazione come se qualcosa di brutto stia per accadere. Secondo il DSM-V, almeno 4 dei sintomi devono essere presenti perché si parli di attacco di panico.
Tutti i sintomi di un attacco di panico esordiscono e si esauriscono in pochi minuti, mentre un episodio d’ansia può durare molto più a lungo ma avere un’intensità ridotta.
Un’ulteriore precisazione riguarda la frequenza degli attacchi e il loro andamento, infatti se nel periodo successivo essi sono seguiti da preoccupazione intensa e da una significativa compromissione del funzionamento della persona su più livelli, si potrebbe essere innescato un disturbo da panico. In ogni caso tutti i sintomi presentati non devono essere correlati all’assunzione di sostanze o farmaci, né ad un concomitante disturbo mentale).
Pertanto la differenza tra un “semplice” episodio ansioso e un attacco di panico, dipende sia dall’intensità dei sintomi che dalla loro durata, sia dalla loro correlazione con gli eventi esterni e la personalità dell’individuo. Infatti mentre alcune strutture di personalità possono essere maggiormente propense ad episodi di ansia, gli attacchi di panico possono presentarsi anche in personalità non particolarmente ansiose (o che comunque non hanno una storia anamnestica carica di disturbi d’ansia) e molto diverse tra loro. Sta allo Psicologo, dopo un’attenta anamnesi, fare una corretta diagnosi e proporre un piano terapeutico adeguato.
Il problema della consapevolezza
A causa della connotazione prevalentemente somatica degli attacchi di panico e, talvolta, anche di un attacco d’ansia intenso, i pazienti si recano al pronto soccorso o alla più vicina guardia medica, in preda alla paura di una patologia cardiaca o di una malattia sottostante. In assenza di un corretto inquadramento diagnostico e di un’assistenza specialistica psicologica al riguardo, si rischia un sovraffollamento di strutture dove richieste di aiuto come queste non possono trovare sempre spazio, sia per situazioni di emergenza prioritarie che per mancanza di personale adeguato. Sono ancora pochi i PS in Italia che offrono, ad oggi, un servizio di assistenza psicologica.
Per questo diventa importante sensibilizzare la popolazione sul ruolo che gli psicologi hanno nella diagnosi e nella cura di questi episodi (che sono molto più frequenti di quanto si possa pensare) e parallelamente potenziare i servizi offerti sul territorio.
Cibo e regolazione emotiva
Quando il cibo regola le emozioni, oltre la fame: il contributo psicologico alla nutrizione

Il rapporto tra cibo ed emozioni è un argomento oramai attuale, molti sono stati e sono tuttora gli studi che spiegano come il modo in cui ci approcciamo al cibo la dice lunga su come stiamo. Uno degli aspetti più interessanti dell’alimentazione è come questa sia in grado di influenzare lo stato emotivo degli individui, ma anche di essere influenzata a sua volta dallo stato mentale. Ciò che è ancor più rilevante è che questo stretto legame si definisce nei primissimi anni di vita del bambino.
Il cibo come premio o punizione
I cibi non sono tutti uguali, è risaputo e abbastanza ovvio che esistano cibi maggiormente accattivanti soprattutto per i più piccini, tanto da diventare, in alcune famiglie, parte integrante del pasto, soprattutto lo spuntino. Proprio la natura di alcuni cibi dolci, anche e soprattutto in termini di consistenza (morbida perlopiù) li rende adatti a diventare dei regolatori del comportamento, utilizzati come rinforzo al fine di convincere il bambino ad adottare una certa abitudine. Il bambino in questo modo viene premiato tramite la possibilità di ottenere un alimento gustoso, oppure punito, quando questo alimento gli viene sottratto o sostituito con uno meno gradito. Questa tipologia di approccio al cibo (che di solito si osserva radicata nella famiglia di origine) insegna al bambino due cose:
- i cibi che mi piacciono sono gli stessi che mi fanno bene;
- il cibo risolve i miei problemi.
Nel primo caso, infatti, il bambino attribuisce ai cibi ricchi di zuccheri (di solito quelli più utilizzati come deterrenti per rinforzare un dato comportamento o ridurne un altro) quelle proprietà benefiche che in realtà non hanno, oltre al fatto che proprio perché così buoni rischiano col tempo di attivare in modo anomalo circuiti neuronali deputati alla ricompensa, creando quel famoso fenomeno per cui “zucchero chiama zucchero”: quanti più cibi dolci mangiamo tanto più ne abbiamo bisogno, con ovvie compromissioni sulla salute.
Nel secondo caso il discorso diventa meramente psicologico, ovvero “il cibo non regola la mia fame fisica, ma la mia fame psichica“. Se infatti per avere il mio cibo preferito devo comportarmi in un certo modo, significa che IO MERITO quel cibo solo se mi comporto bene; se mi comporto male imparo a privarmene. Il cibo smette così di essere un modo per nutrirsi e sfamarsi, diventa invece un regolatore di emozioni e comportamenti e questo può creare, in alcuni individui e in associazione a più circostanze, terreno fertile per l’instaurarsi di disturbi alimentari.
L’alimentazione consapevole
Ciò che fa diventare il cibo una risorsa è la possibilità di sceglierlo consapevolmente, non in base a ciò che in quel momento sentiamo possa appagare un bisogno emotivo, (poiché la fame NON è un bisogno emotivo, bensì fisico), ma in base a ciò di cui il nostro corpo ha bisogno per nutrirsi. Naturalmente, affinché questa consapevolezza esista, la persona deve aver imparato a distinguere un bisogno fisico da un bisogno emotivo. I soggetti in cui questa consapevolezza manca, hanno imparato invece a regolare le loro emozioni tramite ciò che mangiano ed è frequente osservare che il più delle volte ciò che mangiano (e il modo in cui lo fanno) riflette esattamente ciò di cui hanno immediatamente bisogno. Ecco allora che i cibi dolci tornano ad essere sinonimo di affetto, attenzioni; i cibi dalla consistenza morbida un bisogno di contatto e sensibilità; ingurgitare velocemente il cibo senza masticarlo può riflettere un bisogno estremo di colmare un vuoto, mentre eventuali condotte eliminatorie dopo (frequenti in pazienti bulimiche e talvolta anoressiche) evidenziano il senso di colpa per aver “ceduto” ad un bisogno psico-fisico.
Ecco allora che la consapevolezza, intesa come conoscenza di se stessi, capacità di autoregolarsi e delle proprietà nutritive dei cibi, diventa la chiave per una sana alimentazione, propedeutica per l’inizio e il proseguimento di una dieta alimentare.
La stretta correlazione tra psicologia e nutrizione rafforza la necessità di una presa in carico globale dei pazienti, in un’ottica multidisciplinare e collaborativa.
I giorni più bui del mese: la disforia premestruale
Valutazione, diagnosi e intervento del disturbo disforico premestruale

Fino a poco tempo fa il disturbo disforico premestruale (PMDD) apparteneva a quegli argomenti tabù che nessuna donna osava affrontare, poiché vittima di pregiudizi e scarsa attenzione da parte della società. Il PMDD è stato per tanto tempo erroneamente sovrapposto alla sindrome premestruale, per poi trovare il suo spazio come disturbo a se stante solo da qualche anno. Per anni tutti i sintomi legati alle varie fasi del ciclo mestruale venivano opportunamente nascosti dalle donne, vittime di una società (a volte ancora adesso), che considerava le mestruazioni come un tabù e un periodo transitorio in cui “è meglio lasciare le donne in pace”.
La diagnosi del PMDD è complessa, poiché richiede attenzione alla natura e alla frequenza della sintomatologia e si pone in diagnosi differenziale con altri disturbi dell’umore.
DEFINIZIONE E DIAGNOSI:
Parliamo di una disforia che insorge solitamente nella settimana che precede il flusso mestruale (fase luteale), raggiungendo l’apice in concomitanza dei primi giorni del flusso, per poi diminuire e risolversi spontaneamente con la fine della mestruazione. La sua durata oscilla quindi tra i 10 e i 14 giorni, ma varia da donna a donna. Il PMDD è causato da fattori diversi, ormonali e personali. Nello specifico la causa scatenante è il calo di ormoni estrogeni che precede la mestruazione e si accompagna a sintomi fisici e psicologici ben precisi, che non possono essere meglio spiegati con un altro disturbo dell’umore o una semplice sindrome premestruale. Secondo il DSM-5, per poter fare diagnosi di DISTURBO DISFORICO PREMESTRUALE, è necessario che almeno 5 dei sintomi (totali) tra quelli elencati del manuale si verifichino nella settimana prima della mestruazione, nella maggior parte dei cicli mestruali nell’arco dell’anno, per poi migliorare entro pochi giorni fino a sparire totalmente nella settimana che precede la prossima ovulazione. la sintomatologia comprende umore marcatamente depresso, ansia, rabbia, sentimenti di disperazione e forte autocritica, aumento dei conflitti interpersonali, diminuito interesse per le abituali attività, letargia, apatia, facile faticabilità, marcata modificazione dell’appetito, ipersonnia o insonnia, senso di sopraffazione e di difficoltà ad esercitare un controllo sulle proprie reazioni e sulla propria vita. Devono poi essere presenti sintomi fisici di indolenzimento o tensione al seno, dolore articolare e/o muscolare, gonfiore e dolori tipici della fase mestruale. Secondo il manuale questi sintomi devono essere presenti secondo un criterio ben preciso e devono compromettere notevolmente il normale funzionamento della donna in quei giorni. Questo dato è importante per una buona diagnosi differenziale con altri disturbi dell’umore o con una semplice sindrome premestruale la quale, seppur simile al PMDD a livello sintomatologico, non determina un disagio così significativo. L’alterazione dell’umore va poi analizzata in relazione alla storia clinica della paziente, poiché non deve essere meglio spiegata con un disturbo depressivo maggiore o con un disturbo bipolare o ciclotimico, nè dall’assunzione o abuso di sostanze o farmaci, tanto meno dall’esacerbazione di un’altra condizione clinica.

STORIA DEL DISTURBO E FATTORI SOCIO-CULTURALI:
La frequenza del disturbo si aggira tra il 3 e il 9% della popolazione, ma si consideri che una buona percentuale dei casi, ad oggi, non viene diagnosticata. Questo perché i sintomi, come si è visto, sono cognitivi, comportamentali e fisici e la capacità di riconoscerli e dare loro attenzione varia notevolmente in base alla cultura di appartenenza e alla storia di vita. D’altra parte il disturbo disforico premestruale ha fatto la sua comparsa solo di recente nel DSM-5, quindi ha avuto un riconoscimento come patologia a se stante solo da qualche anno e ciò pur rappresentando un passo avanti per tutte le donne che ne soffrono, richiede ancora un impegno notevole per individuare tutti quei casi che, finora, sono rimasti nascosti e inascoltati.
In effetti il fenomeno per troppo tempo è stato ricondotto a fattori sociali e annoverato tra “i vizi del mondo occidentale”. In realtà i primissimi casi riconosciuti risalgono ai primi anni del 900, ma per troppo tempo il disturbo è stato celato da luoghi comuni e dalla disinformazione sul funzionamento della donna nel periodo mestruale. Ad oggi, invece, è un fenomeno correlato alla fisiologia della donna, anche legato a fattori genetici ed ereditari, non più soltanto un fenomeno culturale di dubbia esistenza.
Il trattamento del PMDD prevede ad oggi un sostegno psicologico adeguato e, quando fosse necessario, una psicoterapia. Dal punto di vista farmacologico viene trattato come un disturbo dell’umore, pertanto può essere utile l’assunzione di antidepressivi (nello specifico SSRI). Anche l’attività fisica costante, soprattutto aerobica, pare avere effetti positivi nel ridurre o quantomeno controllare i sintomi, sia fisici che psicologici.
Fonti:
- American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, APA, Washington DC.
- Robinson, L.L. & Ismail, K.M. (2015). Clinical epidemiology of premenstrual disorder: Informing optimized patient outcomes. Int J Womens Health, 7:811–8.
- Marjoribanks, J. et al. (2013). Selective serotonin reuptake inhibitors for premenstrual syndrome. Cochrane Database Syst Rev, 7(6): CD001396.
La prevenzione scolastica dell’abuso di sostanze
“Perché prevenire è meglio che curare”
La prevenzione, in senso generale, è intesa come quell’insieme di azioni volte a ridurre la possibilità che un evento negativo si verifichi. Normalmente la prevenzione va di pari passo con il concetto di promozione della salute, quindi favorire tutti quei comportamenti che aumentano lo stato di benessere delle persone. Normalmente le due cose avvengono insieme, perché per prevenire un fenomeno è necessario promuovere tutti quei comportamenti che aumentano i fattori protettivi nei confronti del fenomeno stesso.
L’abuso di sostanze stupefacenti, inteso come una condizione di uso eccessivo e frequente della sostanza, effettivamente invalidante per la persona e che crea, poi, terreno fertile per l’instaurarsi di una vera e propria dipendenza, è un fenomeno in crescita, soprattutto tra i giovani. Numerose sono le ricerche che hanno dimostrato l’efficienza di programmi di prevenzione attuati su ragazzi anche molto giovani, nel ridurre notevolmente il fenomeno a fronte di comportamenti più salutari.
La scuola è uno dei luoghi dove maggiormente fare prevenzione è possibile (nonché doveroso) e molti dei progetti scolastici oramai utilizzano il metodo basato sull’implementazione delle life skills dei ragazzi, superando di molto la vecchia scuola di pensiero che si limitava solo a demonizzare le droghe, senza però lavorare sulla persona. Il metodo delle life skills nasce in America ma ha rapidamente raggiunto l’Europa e si è rivelato il più efficace in tal senso. Si tratta di lavorare potenziando le abilità di vita dei nostri ragazzi le quali agiscono come fattore protettivo nei confronti dell’uso e abuso di sostanze. Nelle life skills rientrano l’autostima, l’assertività, la comunicazione, la capacità di instaurare relazioni sociali sane etc. e il loro sviluppo previene efficacemente l’uso di alcol, tabacco e altre droghe illegali tra i giovani. L’obiettivo non è più, quindi, soltanto demonizzare le droghe e spiegare quanto siano nocive, ma parallelamente lavorare CON i nostri ragazzi, in modo che scelgano liberamente di non farne uso, non solo perché qualcuno glielo ha vietato.
In America molti di questi programmi vengono condotti già dall’infanzia, su bambini piccoli, poiché quanto prima si riesce ad intervenire, tanto più si ottengono risultati positivi e duraturi nel tempo. Ecco che la scuola assume un ruolo fondamentale in questo senso, dove educazione, sostegno e prevenzione del disagio trovano uno spazio di incontro comune e figure professionali opportunamente formate (psicologi e insegnanti). Certo è che un buon programma di prevenzione deve essere strutturato a 360° sulla persona, quindi considerare anche il contesto sociale e familiare in cui essa vive: per questo è sempre opportuno coinvolgere le figure genitoriali, le quali, assieme ai docenti, hanno un ruolo fondamentale nella crescita e nello sviluppo dei giovani.
Fonti:
Botvin, Griffin, (2003) Drug abuse prevention curricula in schools;
Botvin, Griffin, Nichols (2006) Preventing youth violence and delinquency through a universal school-based prevention approach;
Cirone, Griffin, Botvin (2011) Preventing Substance Abuse among Children and Adolescence;
Sloboda (2015) School prevention. In Leukefeld, Gullotta: Adolescent substance abuse: evidence based approaches to prevention and treatment, Springer.
Che cosa è l’Alzheimer?
“Se non riesci a ricordare dove hai messo le chiavi, non pensare subito all’Alzheimer; inizia invece a preoccuparti se non riesci a ricordare a cosa servono le chiavi.”
Rita Levi Montalcini
Nel corso degli studi universitari non avevo preso in considerazione più di tanto l’ambito geriatrico o, più in generale, la neuropsicologia. Sono però stata fortunata, poiché pur venendo da una magistrale in Psicologia clinica, devo ammettere di aver avuto ottimi docenti di neuropsicologia e neurologia. È grazie a loro se, nella formazione post laurea, ho sentito la necessità di approfondire questo ambito della psicologia e, nello specifico, la patologia d’Alzheimer.
Parliamo di una patologia complessa, ancora oggetto di numerosi studi, una forma di demenza che colpisce numerose aree cognitive e comportamentali, dal linguaggio alla memoria, dall’attenzione alla capacità di giudizio, con risvolti emotivi importanti, tanto per il malato quanto per il suo caregiver. Quando grazie all’esperienza di volontariato e ai tirocini in neuropsicologia, ho avuto modo di stare faccia a faccia con l’Alzheimer, mi si accese una lampadina: volevo saperne di più. Soprattutto rimasi colpita dalle forme precoci della malattia, quindi a matrice genetica: decisi di dedicare a questo la mia tesi di master, un elaborato che, di fatto, è una review delle più recenti scoperte circa la valutazione del paziente con Alzheimer precoce.
Quando si parla del paziente con Alzheimer, si pensa a qualcuno che perde progressivamente la memoria ed in parte è così. Ma non è riconducibile solo alla perdita dei ricordi. Parliamo di una forma di demenza, pertanto le ripercussioni a livello cerebrale non riguardano solo la memoria, coinvolgono anche altre capacità cognitive. Questo perché la perdita neuronale avviene a livello di più aree del cervello, non soltanto quelle deputate alla memoria. Ed ecco che, il nostro paziente, in base alle fasi della malattia, può presentare difficoltà di linguaggio (non ricorda le parole), è disorientato nel tempo e nello spazio, non riesce a seguire una conversazione, sembra assentarsi alle volte, non riesce a progettare e pianificare le azioni quotidiane complesse all’inizio, più semplici mano a mano che la malattia avanza. Chiaramente prendere in carico un paziente con demenza d’Alzheimer presuppone la consapevolezza che, assieme al paziente, si prende in carico anche (e aggiungerei soprattutto) chi se ne occupa. Sul volume 22 del notiziario dell’Ordine degli Psicologi della Puglia si è parlato delle conseguenze che l’assistenza continua ai loro cari provoca nei caregiver, i quali sono, alle volte, proprio i familiari, pertanto emotivamente assai coinvolti. Purtroppo nel nostro Paese questo rappresenta ancora un tasto dolente, perché dopo la comunicazione della diagnosi, che già di per se avviene con un certo ritardo, le famiglie non godono a pieno di un supporto psicologico e assistenziale adeguato. Ricordiamo, inoltre, che l’Alzheimer porta con se anche disturbi dell’umore e del comportamento, tra cui depressione e apatia, disinibizione e aggressività, non facili da gestire.
Per fortuna, però, proprio perché sul fronte della ricerca qualcosa (e più di qualcosa) si muove nella giusta direzione, ci si sta soffermando sempre più sui fattori di rischio e i markers neurobiologici che compaiono molti anni prima della comparsa dei sintomi, cosicché si possa fare una valutazione e una diagnosi sempre più tempestiva della patologia e concordare cure più adeguate e calibrate sui singoli pazienti.
L’auspicio è che queste ricerche possano trovare un riscontro pratico nella clinica e nella riabilitazione migliorando, finché è possibile, le condizioni dei pazienti ma anche di chi se ne prende cura che, ogni giorno, porta sulle spalle i ricordi e la vita di entrambi.
Fonti:
Il caregiver burden nella demenza d’Alzheimer, Psicopuglia 2018, vol. 22 pp. 72-74
Early identification of cognitive deficits: preclinical Alzheimer’s didease and mild cognitive impairment. Geriatrics 2007, pp 19-23
Manuale di neuropsicologia clinica ed elementi di riabilitazione, 2007. Il Mulino, Bologna