La paura di ciò che non c’è

Aspetti cognitivi dell’ansia anticipatoria

La paura è un’emozione che si manifesta nei confronti di un pericolo percepito oggettivamente come minaccioso, sperimentata dalla maggior parte delle persone. E’ funzionale, in senso stretto, alla sopravvivenza degli individui ed è per questo che evolutivamente è stata conservata. Essa genera delle risposte di attacco o fuga legate all’attivazione del sistema nervoso simpatico, nello specifico dell’amigdala, una piccola porzione del cervello che fa parte del sistema limbico. L’amigdala è implicata nei processi di valutazione delle situazioni e ci prepara ad affrontare (o scappare) da quelle ritenute pericolose per la nostra sopravvivenza. La fobia, in senso più specifico, si riferisce alla paura di un pericolo soggettivo, che non è valutato come minaccioso da tutti e che, proprio per questo, si differenzia dalla paura in generale. Esistono diversi tipi di fobia, da quelle dell’infanzia tipicamente sperimentate dai bimbi a quelle più specifiche anche in età adulta (fobie degli animali, di oggetti, di parti del corpo, situazionali etc). L’ansia, che ritroviamo anche nelle situazioni di paura e fobia, è una reazione emotiva ad una situazione percepita come minacciosa che si manifesta con sintomi fisiologici spiacevoli, i quali possono essere anche intensi. Ecco perché le due cose spesso viaggiano sullo stesso binario.

Ho l’ansia di avere paura

L’ansia non sempre si manifesta in presenza di uno stimolo ritenuto minaccioso, spesso anzi si manifesta in assenza di quello stimolo: l’ansia anticipatoria, relativa ad eventi che temiamo possano verificarsi, o siamo certi si verificheranno, ha un’enorme potere nel condurre le persone ad evitare le situazioni temute ed in questo senso rinforza la paura stessa.

Se so che avrò paura, mi sento in ansia, così metto in atto una serie di comportamenti per evitare di dover fronteggiare la situazione temuta e, quindi, per evitare di sentirmi in ansia.

Fondamentalmente dietro i disturbi d’ansia si osserva la difficoltà dei pazienti di sopportare i sintomi fisiologici legati all’ansia stessa e, al tempo stesso, la tendenza a porre su di essi molta attenzione sempre nel tentativo di controllarli: tuttavia questa focalizzazione attentiva sulle sensazioni corporee altro non fa che potenziarle, distorcendone l’interpretazione. Contemporaneamente, nei processi di evitamento messi in atto, l’ansia diminuisce: la persona avrà pertanto imparato che evitando la situazione temuta si è sentita meglio. Questo processo è particolarmente forte nell’ansia anticipatoria ed è il motivo per il quale spesso i disturbi d’ansia finiscono per vincolare tanto il funzionamento della persona nella sua vita. Vediamo come:

Se una persona sperimenta ansia in presenza di una situazione temuta che è presente in quel momento, in linea di massima potrebbe evitare la situazione nel momento stesso in cui si manifesta:

stimolo: cane (che mi fa paura)

situazione: incontro il cane, avverto un disagio, penso che ho paura.

risposta: cambio strada.

La volta successiva la persona, sapendo che deve recarsi nello stesso posto, si ricorda che ha incontrato il cane, così inizia a pensarci anche quando è comodamente seduta sul divano di casa: ripercorre nella sua mente i momenti in cui ha avuto paura e inizia a pensare che sicuramente il giorno dopo, facendo quella strada, rincontrerà lo stesso cane (oppure un cane, nei casi di fobia specifica). Il cane non è presente, eppure l’ansia c’è. L’unico modo per smettere di avere ansia sembrerebbe proprio quello di decidere, già da ora, di non recarsi in quel posto, oppure cercare strade alternative, magari facendo tardi e di fatto impegnando tempo e risorse per evitare una situazione temuta: la persona si calma non appena avrà la certezza , nella sua testa, che non incontrerà il cane. L’evitamento qui è su più livelli, poiché il soggetto tenderà ad evitare qualunque situazione lo possa condurre alla possibilità di incontrare lo stimolo fobico.

Intervento

Perché un intervento su un disturbo d’ansia sia efficace, occorre effettuare un buon assessment, definendo e circoscrivendo il problema, ma anche le risorse e le abilità che la persona possiede. Ciò è fondamentale prima di passare alla fase successiva, poiché sapere da che livello una persona parte permette di costruire un intervento mirato e individualizzato, nonché coerente con gli obiettivi che vogliamo raggiungere con il paziente.

Il trattamento cognitivo-comportamentale risulta particolarmente efficace nei disturbi d’ansia e prevede l’analisi delle distorsioni cognitive, ovvero le interferenze che attivamente influenzano i pensieri e, quindi, i comportamenti del paziente, nonché la loro messa in discussione, anche tramite prove comportamentali. Queste ultime sono fondamentali per lavorare sulla consapevolezza che la persona ha circa le proprie abilità/risorse, spesso sottostimate perché mai messe realmente alla prova soprattutto nei casi in cui il problema sia cronicizzato.

Fondamentale resta una solida alleanza terapeutica, base anche per una buona aderenza alla terapia.

“Gran parte della mia vita è stata spesa a preoccuparmi di cose che non sono mai accadute.” Mark Twain.

Imparare a fallire

Nessun successo è definitivo, nessun fallimento è totale.

Per comprendere questa frase bisogna partire dalla definizione di fallimento, la quale reca in sé un concetto molto importante: l’obiettivo. Fallire, infatti, è definito come “il non riuscire nel proprio intento o nel mancare l’obiettivo desiderato”. Questa definizione prende come metro di giudizio un obiettivo assoluto e considera il fallimento il mancato raggiungimento di uno scopo ultimo. Se ci caliamo nella realtà quotidiana, però, possiamo notare che ogni qual volta desideriamo raggiungere un obiettivo non possiamo fare a meno di raggiungere prima delle tappe intermedie, dei cosiddetti obiettivi intermedi: questo accade maggiormente in quegli obiettivi che richiedono tempo e che noi categorizziamo come assoluti, ovvero l’obiettivo finale. Di seguito una lista di obiettivi “assoluti”:

Perdere 20 kg

Trovare lavoro

Comprare una casa

Sposarsi

Essere felici

Guarire da una malattia

Imparare a ballare

E potremmo continuare all’infinito.

Ora, se osserviamo bene questa lista, noteremo che ognuno di questi obiettivi a sua volta potrebbe essere sovrastato da un obiettivo ancora più assoluto. Ad esempio potrei decidere di perdere 30 kg, di diventare il miglior ballerino del mondo, potrei voler comprare 4 case e via discorrendo. Questo ci dice che persino categorizzare un obiettivo come assoluto non può prescindere dalla nostra percezione di assoluto. Ma se osserviamo ancora più attentamente la lista potremmo notare che dietro ognuno di questi obiettivi ci sono tanti “sotto obiettivi” che per forza di cose sono propedeutici all’obiettivo finale: per perdere 20 kg devo prima perderne 3. Per perdere 3 kg devo prima mangiare di meno (o meglio) e muovermi di più. Per poter effettivamente mangiare meglio dovrò impostare una dieta, per averla dovrò rivolgermi ad un esperto in materia… alla base di tutto dovrei persino rendermi conto che ho bisogno di perdere peso e poi convincermi di volerlo fare. Quest’ultimo è già di per sé un obiettivo. Questi sotto obiettivi sono fondamentali perchè fanno parte di una catena che, se rotta, invalida o rallenta il raggiungimento dell’obiettivo finale. Tornando all’esempio del ballo, banalmente per poter imparare a ballare dovrò iscrivermi a scuola di ballo, ma dovrò anche frequentare ed esercitarmi con costanza, per raggiungere il mio scopo. In alcune circostanze questa catena si spezza perché alcune persone non riescono a raggiungere questi “piccoli” obiettivi intermedi, così compromettono l’obiettivo finale. Allora per qualcuno già poter iscriversi a scuola di ballo potrebbe essere un enorme successo, per altri solo l’inizio di una montagna da scalare. Se esistono degli obiettivi intermedi, la percezione dei quali è soggettiva, possiamo dedurre che anche la percezione dei loro successi e dei loro fallimenti lo è.

La percezione del fallimento e del successo

Se decido di perdere 20 kg devo sapere come agire, ovvero devo sapere quali tappe sono necessarie nel mio percorso affinché io raggiunga questo scopo. Ma soprattutto devo avere ben chiari i miei obiettivi intermedi. Questo mi consentirà di tutelarmi da un errore molto frequente: non vedere i miei obiettivi intermedi e vedere solo l’obiettivo finale. Se guardo solo l’obiettivo finale esso mi sembrerà sempre troppo lontano (e può darsi lo sia davvero), per questo è così importante focalizzare l’attenzione sui micro obiettivi. I micro obiettivi sono i nostri peggiori nemici perché tendiamo a sottovalutarli nel quotidiano, ma sono in realtà i nostri migliori alleati, in quanto sono loro a salvarci dai momenti in cui ci sentiamo scoraggiati. Se il mio obiettivo è perdere 20 kg in un anno e ne perdo “solo 10”, chi stabilisce che io abbia fallito? Ho fallito rispetto all’obiettivo finale, ma ho in realtà raggiunto innumerevoli micro obiettivi (che mi hanno permesso di perdere peso). Vediamoli insieme:

Ho deciso di perdere peso

Ho chiamato un nutrizionista

Ho iniziato la dieta

Ho portato avanti la dieta per un anno (ci sono stati degli sgarri, ma mi sono sempre ripresa)

Ho fatto attività fisica per un anno

Ho imparato a mangiare meglio

Ho perso 10 kg (prima ne pesavo 10 in più).

Gli obiettivi raggiunti sono di più di quelli non raggiunti, pertanto il dato di fatto è che io non ho ancora perso tutti i kg che vorrei perdere, ma ne ho persi la metà e mi sto muovendo nella giusta direzione.

L’importanza del pensiero

Imparare a pensare sano, ci fa vivere in modo sano. Vedere le cose sempre nell’ottica del fallimento ci crea disagio così come il vederle in un cieco e irreale ottimismo. La qualità dei nostri pensieri determina la qualità dei nostri comportamenti e non in ultimo delle nostre emozioni. Ognuno di noi pensa (e quindi ragiona) in un determinato modo che è frutto di un apprendimento e come tale può essere modificato. Pertanto è possibile imparare a pensare in modo diverso anche se abbiamo la sensazione che i nostri pensieri non dipendano da noi.

Ottimisti a tutti i costi?

No, non sarebbe possibile e nemmeno utile. Il pensiero che crea disagio è un pensiero dicotomico: tutto o niente, giusto o sbagliato, riuscito o fallito. Se penso che ho fallito in modo assoluto non vedrò mai un barlume di successo e viceversa. Il pensiero dicotomico non offre sfumature e, quindi, vie d’uscita. Decidere di guardare ai successi, anziché ai fallimenti, non significa negare di aver mancato l’obiettivo, significa decidere di focalizzarsi di più su ciò che siamo riusciti a fare piuttosto che su ciò che non siamo ANCORA riusciti a fare. Al contrario di un pensiero rigido, un pensiero flessibile prende in considerazione tutti i dati di realtà, pertanto se è vero che non sono riuscita a perdere tutti i kili che volevo perdere (quindi ho fallito nell’obiettivo assoluto), è vero anche che ne ho persi la metà (quindi ho avuto almeno un successo). Se è vero che ne ho persi metà, è vero che posso perderne altri, perché nel frattempo ho imparato un repertorio di comportamenti che prima non avevo. Il mio fallimento diventa quindi relativo e più accettabile perché non mi definisce in modo totalizzante.

Quanti e Quali obiettivi prefissarsi

Se sei arrivato fino a qui avrai compreso che dietro ad ogni obiettivo assoluto esistono dei micro obiettivi da raggiungere. Uno dei modi migliori nell’impostare un percorso volto a raggiungere una meta è proprio quello di definire i piccoli obiettivi che la sottendono. Questo è importante non solo per le ragioni che ho espresso sopra ma anche perché devo accertarmi che i miei obiettivi siano pochi, realistici e chiari.

Pochi: nell’unità di tempo. Non è utile pretendere di raggiungere troppi obiettivi in poco tempo: aumenteremmo le possibilità di fallimento dei sotto obiettivi e di frustrazione.

Realistici: per le mie possibilità e per le opportunità che l’ambiente mi offre. Anche qui il rischio è di andare incontro al fallimento perché ci siamo posti obiettivi troppo difficili o poco realizzabili in quel momento.

Chiari. Gli obiettivi devono essere chiari, ma non rigidi.

Infine, gli obiettivi dovrebbero sempre rispecchiare i nostri valori, ciò che vogliamo essere o diventare. Questo è banale, ma ripeterlo non ci fa mai male.

Non si può avere nessun successo se non si è pronti ad accettare il fallimento.

(George Cukor)

Il topolino che voleva essere un elefante

Quando vuoi essere ciò che non sei, ti dimentichi di te stesso.

Esiste una storia. Come tutte le storie che insegnano qualcosa, è di una semplicità estrema, perché sono le cose semplici ad arrivare dritte dove devono arrivare. Le storielle per bambini sembrano banali e scontate, in realtà sono scritte da adulti e rivolte ai bambini perché i bimbi colgono l’essenza delle cose, capacità che le “persone grandi”, spesso, non hanno.

A me piace utilizzarle anche con gli adulti e gli adolescenti, perché nella loro semplicità offrono una chiave di lettura che spesso a noi adulti, presi da mille pensieri e responsabilità, sfugge.

La storia narra di un topo e di un elefante che si incamminarono per un lungo viaggio, ognuno con le sue provviste di cibo. Mentre l’elefante procedeva possente e veloce sulle sue grosse zampe, il topolino faceva fatica a stargli dietro: inciampava nelle sue stesse riserve di cibo e le sue zampette dovevano correre troppo veloci per tenere il passo dell’amico. Il topolino rimase indietro così, stanco e arrabbiato, invocò la natura lamentandosi della sua condizione, pregandola di trasformarlo in un animale più grosso, forte e robusto. Il topolino voleva essere come il suo amico, un elefante.

Venne accontentato. La natura decise che il topolino sarebbe diventato un elefante, mentre il suo amico elefante sarebbe diventato un topo.

Il topolino, che era diventato elefante, però, era troppo grosso e pesante e cadeva da tutti i rami ai quali tentava, per sua natura, di arrampicarsi e il cibo che si era portato non era sufficiente a sfamarlo. L’elefante, ora topolino, era troppo piccolo per potersi cibare del cibo che si era portato e non era abituato alla sua nuova mole. Fu la volta di due cacciatori; mentre al topolino bastò nascondersi sotto le foglie, l’elefante non trovava un nascondiglio sicuro, così venne ferito: proprio lui, che voleva essere grande e grosso.

I due pregarono così la natura di poter tornare ad essere se stessi, ognuno nel proprio corpo, così la natura li accontentò ricordando loro che ogni essere vivente ha i suoi problemi e che solo mettendoci nei panni gli uni degli altri possiamo capire come il mondo appare alle altre persone.

Il topolino aveva capito che la mole dell’elefante lo aiutava in alcune circostante, ma rappresentava uno svantaggio in altre. L’elefante, dal canto suo, aveva visto come può apparire grande e pericoloso il mondo agli occhi di un topolino indifeso.

Nel suo duplice significato, questa storiella è utile in tutte quelle fasi della vita in cui ci sentiamo delusi da noi stessi e iniziamo a guardare gli altri con invidia. Quante volte guardiamo alle vite degli altri con la convinzione che siano migliori della nostra? Quante volte avremmo voluto avere il corpo di un’altra persona? Eppure non basterebbe cambiare il nostro aspetto per essere felici: la natura di ognuno di noi rimarrebbe la stessa e, con buone probabilità, starebbe stretta in un corpo diverso e non potrebbe esprimersi.

In secondo luogo, la storia aiuta a comprendere come non tutto ciò che sembra perfetto è esente da problemi; esistono persone che sembrano avere un corpo perfetto, un lavoro perfetto, una famiglia perfetta ai nostri occhi, ma che fronteggiano quotidianamente milioni di problemi di cui noi, proprio perché diversi, non siamo a conoscenza e, forse, non saremmo in grado di affrontare.

Cambiare assume un significato positivo quando si lavora sulle proprie risorse, sulla propria natura e sulla propria persona. Per questo noi psicologi ci ritroviamo a spiegare ai pazienti che arrivano in studio e che chiedono ricette miracolose ed immediate per cambiare ed essere felici, che non funzionerebbe se si vuole lavorare sulla vita degli altri, piuttosto che sulla propria.

Non funzionerebbe perché:

  • Tu sei un essere unico, nessuno potrà mai essere come te.
  • I tuoi problemi, per quanto simili a quelli degli altri, sono tuoi e tu li vivi in un modo solo tuo.
  • La soluzione al problema di un’altra persona può non essere adatta a te, se non addirittura essere deleteria.
  • Quando giudichi i tuoi successi e le tue sconfitte in relazione alla vita degli altri, stai giudicando i successi e le sconfitte degli altri, non le tue.
  • Infine, ogni volta che guardi la vita degli altri e vorresti essere un’altra persona, ti stai allontanando da te stesso, ovvero il punto da cui partire per migliorarti.

D’ALTRA PARTE, CHI VUOLE ESSERE LA BRUTTA COPIA DI UN’ALTRA PERSONA?

Dott.ssa Sara Elefante

Psicologa Clinica

Che ansia!

Quando il modo migliore per sconfiggere il nemico è… farselo amico.

Sembra diventata una costante delle nostre vite, l’ansia, sempre presente e ingombrante. Passiamo la maggior parte del nostro tempo a cercare di sconfiggerla e trovare soluzioni per allontanarla. L’ansia non nasce come qualcosa di negativo, come tutte le emozioni o sensazioni, ha evolutivamente un significato positivo che è legato all’istinto di sopravvivenza e autoconservazione. Eppure noi proprio non la vogliamo, facciamo di tutto per mandarla via, così lei si fa sentire in altre parti del corpo, in altre forme. E se invece ce la facessimo amica?

L’ansia, cosa è e a cosa serve

L’ansia è uno stato psichico, caratterizzato da preoccupazione e paura più o meno intense, generalmente legato ad eventi scatenanti e che può essere accompagnato da modificazioni psico-somatiche, come sudorazione, tachicardia, agitazione. Sono proprio queste modificazioni ad avere un valore positivo, poiché se contenute e non disfunzionali, servono a preparare la persona da un punto di vista psico-fisico, ad affrontare una certa situazione. Ad esempio immaginiamo di dover parlare in pubblico: è certamente una situazione che richiede concentrazione e impegno, è perciò importante che noi la percepiamo come tale. Se non provassimo alcuna preoccupazione, probabilmente non le daremmo importanza e finiremmo per deconcentrarci e non percepire il pericolo, che può essere quello di sbagliare, fare brutta figura, etc. Al contrario, se fossimo eccessivamente agitati, la nostra prestazione ne risulterebbe compromessa. Per questo è importante che l’ansia sia presente, ma non opprimente. Per la maggior parte delle persone sono proprio i sintomi fisici dell’ansia a rappresentare un problema, anche perché talmente aspecifici che a volte possono far pensare a tutto, o a niente. Comprendere l’entità dell’ansia e quindi la sua gravità è fondamentale in quanto pur avendo una sua utilità, a volte e in alcune persone, essa può diventare disfunzionale e tutti quei sintomi di cui sopra, anziché preparare il fisico e la mente a dare il meglio, generano un blocco. Così ci sentiamo pietrificati, terrorizzati, incapaci di agire. Ecco perché, quando ci rendiamo conto che la nostra ansia non è positiva, ma ci blocca, è opportuno contattare uno psicologo, col quale comprendere cause e rimedi delle nostre difficoltà, in un percorso personalizzato e calibrato per ognuno di noi.

Sentirsi schiacciati dall’ansia può essere un valido motivo per cercare aiuto da un professionista qualificato.

I pensieri ansiosi

Fondamentalmente l’ansia negativa è un modo di pensare, caratterizza un funzionamento psichico incentrato sul bisogno di controllare tutto. Può sembrare strano: le persone molto ansiose pretendono di controllare tutto, eppure hanno la sensazione di non riuscire a controllare nulla. I pensieri ansiosi, quelli di cui non riusciamo a liberarci e che non ci fanno dormire la notte, spesso sono un tentativo che mettiamo in atto per “tenere in ordine” qualcosa che sembra ci stia sfuggendo, di cui abbiamo paura, un modo come un altro che il nostro cervello mette in atto per timore di perdere il controllo. Così ciò che pensiamo viene distorto, ingigantito, fino a perdere talvolta contatto con la realtà, perché “se penso al peggio, posso controllarlo e magari non accade” mentre “se non ci penso, temo possa piombarmi addosso senza che io me lo aspetti“. Ecco che pensare diventa necessario. A volte l’ansia può essere apparentemente slegata da eventi scatenanti e presentarsi senza un reale motivo e nei casi più complessi questo tipo di pensieri prende la forma di ossessioni e compulsioni, ma qui ci limiteremo a parlare dell’ansia senza scendere nel particolare dei disturbi ansiosi più importanti.

Perché farsela amica?

Se i sintomi ansiosi rappresentano un problema, è del tutto naturale tentare di risolverli. Tuttavia la preoccupazione per questi sintomi non fa altro che generare… ansia! Ecco che può risultare fallimentare il tentativo individuale di “non pensare” o trovare delle soluzioni lampo e affrettate per sentirsi meglio, il cui unico scopo sarebbe quello di intervenire sul sintomo, ma non sulla natura del sintomo. Per fare un paragone, è come se ci fosse venuta la febbre come conseguenza di un’infezione e noi prendessimo solo un antipiretico: la febbre potrebbe scendere ma si ripresenterebbe, perché non abbiamo curato l’infezione che l’ha scatenata. Farsi amica l’ansia significa conoscerla, stare con lei, capire cosa la genera, cosa vuole comunicarci. Vuol dire, alle volte, mollare la presa su tutto ciò che cerchiamo di controllare e far andare come vogliamo noi, accettare che si può sbagliare e che anche se sbaglieremo l’errore può non essere irreparabile.

Vediamo un caso in cui i pensieri ansiosi prendono il sopravvento

Immaginiamo di dover sostenere un colloquio di lavoro l’indomani mattina. La sera prima è probabile che ci sentiremo agitati o comunque preoccupati per questo. Cerchiamo di metterci a letto ma non riusciamo a dormire.

Evento scatenante: colloquio (del giorno dopo, quindi NON è ancora accaduto)

Cosa potrebbe accadere?

  • Arrivare in ritardo. Per fortuna esistono i cellulari per avvisare ed evitare brutte figure, oltre al fatto che impostare la sveglia prima del solito ci eviterebbe di arrivare tardi. In ogni caso, ritardi per causa di forza maggiore capitano a tutti e, con le giuste motivazioni e scuse, sono generalmente tollerati.
  • Non sentire la sveglia. E’ improbabile, se non è mai accaduto. Se siete soliti non sentirla, potete impostare più sveglie al massimo del volume, o chiedere a chi vive con voi di svegliarvi.
  • Fare brutta figura. Premesso che non lo si può mai escludere, in generale a meno che non sappiate parlare italiano e non vi presentiate in costume da bagno, quale esattamente potrebbe essere una figura così brutta??
  • Sbagliare nel parlare. Anche se sbagliaste un congiuntivo per distrazione, basterebbe scusarsi e sfoderare un bel sorriso. A volte ci dobbiamo perdonare un po’. Perdonare noi stessi è il primo passo per farci perdonare più facilmente dagli altri.
  • Non essere assunti. Chiaramente è una possibilità, ma come tutte le altre non è ancora accaduta e questo proprio non può dipendere SOLO da noi, ma da tanti altri fattori che magari non conosciamo.

Certo è che la vita è così imprevedibile che di tutti gli scenari che ci possiamo immaginare, quello reale lo conosceremmo solo il giorno dopo. Questi sono, appunto, immaginari e non reali.

Esistono dei metodi per rilassarsi, come l’utilizzo di tisane e un bagno caldo, oppure dedicarsi ad attività che ci stanchino e ci distraggano, come ad esempio la lettura o la visione di un film. Tuttavia è importante, aldilà di questi rimedi, IMPARARE A CONVIVERE CON LE PREOCCUPAZIONI, che bene o male ci accompagneranno sempre, piuttosto che farci sommergere oppure scacciarle come mosche, poiché esse rimarrebbero ma noi non avremmo imparato a starci insieme.

L’obiettivo resta imparare a starci, nell’ansia.

L’ansia è sempre un vuoto che si genera tra il modo in cui le cose sono e il modo in cui pensiamo che dovrebbero essere; è qualcosa che si colloca tra il reale e l’irreale.
(Charlotte Joko Beck)

Quelli che… parlano da soli!

Come proteggerci dalle discussioni che ci tolgono solo energie

Uno dei motivi per cui le persone richiedono una consulenza dallo Psicologo è rappresentato dai problemi relazionali e dall’apparente “impossibilità” di uscirne senza farsi o fare male all’altro. Può sembrare strano, ma molti di questi problemi non dipendono tanto dal fatto di avere due visioni differenti dello stesso argomento, quanto dall’incapacità di COMUNICARE con l’altro.

La Comunicazione

La comunicazione è un processo continuo, tramite il quale un messaggio viene “spedito” e “decodificato” da chi lo riceve che, a sua volta, ne estrapola un significato. Si tratta di un processo ininterrotto, nel senso che, come affermava Paul Watzlawick, Psicologo Sistemico, è impossibile non comunicare. Noi comunichiamo in molteplici modi e il 97% (si, avete letto bene, 97%) di questi modi è non verbale. Esprimiamo perciò noi stessi, la nostra identità e i nostri pensieri soprattutto con la gestualità e l’espressione facciale, oltre che con le parole. La Psicologia Sistemica ha studiato come all’interno di un sistema, la capacità delle parti che lo compongono di comunicare in modo efficace tra loro, contribuisca a rendere il sistema stabile e duraturo. Al contrario, sistemi disfunzionali, appaiono caratterizzati da una comunicazione cattiva e inefficace.

Quando non riusciamo a comunicare

Capita spesso, in seguito ad forti discussioni, di sentirci svuotati, stanchi, frustrati, con addosso solo una gran rabbia e delusione. Magari ci chiediamo cosa abbiamo sbagliato, oppure quale sia il problema. La cosa certa è che questo tipo di discussioni generano molta sofferenza deteriorando i rapporti anche in modo importante. Se ci fermiamo a riflettere però, vedremo che queste situazioni accadono quando le persone non parlano tanto per risolvere i problemi, ma piuttosto per prevalere sull’altro e dimostrare di aver ragione a tutti i costi. L’obiettivo della discussione, perciò, non è quello di trovare un punto d’incontro tra due visioni differenti, ma innescare una vera e propria guerra tra le parti.

Questa modalità di comunicare lascia in chi ascolta la sensazione di “aver perso tempo e non aver risolto nulla”, proprio perché è distruttiva, non finalizzata ad una visione oggettiva della situazione. Chi utilizza questo tipo di comunicazione, in realtà, non ha alcun interesse a trovare una soluzione, né tanto meno a conoscere il punto di vista altrui: il suo obiettivo è, anzi, ostentare la sua visione dei fatti. Per molte persone, mostrarsi inflessibili di fronte a visioni alternative alla loro è indice di forza: in verità la chiusura e la rigidità nascondono il timore che esistano più realtà percepibili e di ritrovarsi persino a poter cambiare idea. Cambiare idea, per molti, è un attacco alla propria identità. Un’identità integrata e sana, è invece dinamica e non si fossilizza solo su come le cose dovrebbero essere, ma piuttosto su come sono.

Come affrontare allora queste persone?

Eccoci alla fatidica domanda che fanno tutti: “ma allora, cosa devo fare?” Naturalmente non possiamo sempre ignorare queste persone, poiché esistono numerosi contesti in cui siamo costretti ad averci a che fare. A questo punto è necessario ADATTARSI. Molti, quando si parla loro di adattamento, lasciano la stanza dello Psicologo, ribellandosi al fatto che proprio chi ha ragione debba adattarsi a chi ha sbagliato. In realtà ciò che si consiglia di fare non è adattarsi a chi non ci piace, ma alla situazione che siamo costretti a dover fronteggiare. Adattarsi significa anzitutto prendere le distanze da chi ci parla, questo ci aiuta a capire cosa sta dicendo rimanendo su un piano concreto dei fatti. Inoltre ci permette di ridimensionare l’impatto emotivo che l’altro ha su di noi: se io capisco che sotto un atteggiamento aggressivo e prevaricante si nasconde in verità tanta insicurezza, modifico la percezione che ho di quella persona e, di conseguenza, della situazione. Eviterò così di cadere nello stesso errore del mio interlocutore, ovvero quello di ostinarmi a difendere il mio punto di vista in una guerra senza fine. Allo stesso modo, imparare a non cadere nella trappola della comunicazione distruttiva ci aiuta a veicolare le nostre energie in quei rapporti che ci fanno stare bene e ci arricchiscono, sganciandoci da situazioni che ci tolgono forze fisiche e mentali.

Ecco quindi che adattarsi significa tutt’altro che cedere: anzi, vuol dire scegliere per chi e per cosa discutere, proteggendo noi stessi.

Non sempre chi ha l’ultima parola ha ragione e non sempre chi rimane in silenzio ha torto.

Per ulteriori approfondimenti su come imparare a comunicare in modo efficace, puoi consultare l’articolo precedente, relativo all’assertività 🙂

Il potere dell’assertività

“Puoi dire tutto, se sai come dirlo”

Capita spesso di ritrovarsi in discussioni dalle quali non si riesce ad uscire, quelle in cui ognuno vuole (giustamente o no) avere ragione e per magia ci ritroviamo intrappolati in un tira e molla senza fine all’ultimo sangue. Nella maggior parte di questi casi, il motivo principale per cui questo accade, è la mancanza di assertività.

Ma cos’è l’assertività?

Ci riferiamo alla capacità di comunicare i propri bisogni, emozioni, sentimenti, nel pieno rispetto dell’altro e di noi stessi. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, dobbiamo tornare un attimo indietro sui diversi stili comunicativi, ce ne sono tre, immaginiamoli lungo un continuum:

Agli estremi troviamo un atteggiamento comunicativo aggressivo e passivo, al centro, quello assertivo, che rappresenta il punto di equilibrio.

Vediamoli insieme:

Atteggiamento aggressivo: è caratterizzato da tendenza ad alzare la voce per far valere le proprie ragioni, monopolizzare la conversazione e scarsa attitudine all’ascolto. Chi ne fa uso, tende a sovrastare l’altro, non tenendo conto dei suoi bisogni, focalizzandosi solo sui propri.

Atteggiamento passivo: all’opposto del primo, caratterizza persone che hanno difficoltà a far valere e comunicare le proprie idee, reprimono i propri bisogni e il loro personale punto di vista, perché temono da un lato il giudizio altrui, dall’altro di non riuscire a gestire il carico emotivo di una conversazione. Appaiono mancanti di dinamismo e quasi mai prendono iniziativa in un dialogo.

Di solito questi due stili si auto alimentano quanto più hanno a che fare l’uno con l’altro, poiché l’aggressivo trova nel passivo modo di esprimersi e, viceversa, il passivo si chiuderà ancora di più di fronte all’aggressività.

Atteggiamento assertivo: riesce a comunicare ciò che pensa senza aver bisogno di aggredire l’altro e allo stesso tempo senza doversi nascondere. Rappresenta il successo comunicativo: riuscire a farsi valere (difendere i propri bisogni), senza aggredire l’altro (quindi rispettando i bisogni degli altri).

Imparare ad essere assertivi ha degli enormi vantaggi, non solo comunicativi, ma anche fisici. Le persone aggressive e passive, infatti, tendono a soffrire, a lungo andare, di problematiche cardiovascolari e psicosomatiche in genere, poiché sia alterarsi e alzare la voce, sia reprimere tutto ciò che sentiamo, ha delle ripercussioni negative sulla nostra salute, mentre chi è assertivo gode di una migliore qualità di vita.

Ma facciamo un esempio di frasi aggressive, passive e assertive. Mettiamo il caso che io voglia dire ad un amico, ritardatario di abitudine, che mi ha fatto attendere ad un appuntamento un’ora senza un apparente motivo, che questo suo comportamento mi da fastidio:

Frase aggressiva: “mi hai scocciato, fai sempre tardi, da oggi non esco più con te!”

Frase passiva: “non fa niente, figurati (con un principio di ulcera, perché abbiamo aspettato un’ora e non sappiamo nemmeno il perché)

Frase assertiva: “ho notato che fai spesso ritardo, è successo qualcosa? Se preferisci un orario più comodo puoi dirmelo la prossima volta, così riusciamo entrambi ad organizzarci la giornata”.

Nel primo caso abbiamo aggredito l’altro senza sapere nemmeno se avesse fatto tardi per un motivo specifico e abbiamo chiuso la comunicazione, non dandogli di fatto modo di intervenire né di scusarsi, qualora volesse. Questo comportamento può scatenare aggressività dall’altra parte oppure indurre scuse non sempre del tutto autentiche, perché generate dal voler risolvere la questione nell’immediato. Di fatto, pur avendo le nostre ragioni, abbiamo mancato anche noi di rispetto all’altro.

Nel secondo caso abbiamo represso il fastidio dell’aver atteso tanto, senza chiedere nemmeno per quale motivo e certamente mandiamo il messaggio che per noi non sia stato un problema, quando magari in quell’oretta avremmo potuto fare altro. Questo atteggiamento autorizza l’altro a presentarsi in ritardo la volta successiva e rischia di farci accumulare “il non detto” ed esplodere dopo 10 volte. In questo caso abbiamo mancato di rispetto verso noi stessi.

Nell’ultimo caso, invece, abbiamo comunicato che non ci ha fatto piacere attendere così tanto tempo, ma abbiamo lasciato aperta la conversazione dandogli comunque modo di spiegarsi, se lo vuole e, magari, di scusarsi in modo autentico, perché l’altro noterà che ci siamo infastiditi, ma non lo abbiamo aggredito. Questo atteggiamento porta rispetto a noi stessi e, poi, all’altra persona, oltre a spiazzare, il più delle volte, il nostro interlocutore, che a quel punto dovrà per forza darci delle spiegazioni e riflettere sul suo difetto.

Si può allenare l’assertività? Come?

Lo stile comunicativo di una persona dipende in gran parte dal modo in cui è stata trattata nella vita e, poi, dal modo in cui deciderà di essere trattata in futuro. Pertanto sì, l’assertività può essere allenata attraverso dei training specifici, sia in contesti scolastici, tramite giochi di ruolo in cui i bambini/ragazzi si sperimentano in diverse situazioni, con la supervisione di uno psicologo, oppure in incontri individuali o di gruppo tenuti da uno psicologo, ai quali possono partecipare persone di tutte le età.

Tutti noi, però, possiamo allenarla nel quotidiano, nel nostro piccolo e ci renderemo conto che quando ci mostriamo assertivi con gli altri, col tempo chi è aggressivo tende a calmarsi (perché non gli diamo modo di aggredirci), mentre chi è passivo tende ad aprirsi (perché gli diamo modo di essere ascoltato). In poche parole, l’assertività genera assertività!

E ricordate, come scriveva Paulo Coelho: “quando dici sì agli altri, assicurati di non dire no a te stesso”.

Perché tu si e io no? La sofferenza degli invidiosi

“Quando essere felici per qualcuno ci sembra impossibile”

Quando si pensa all’invidia lo si fa sempre in termini negativi. Per la maggior parte delle persone il sentimento di invidiare qualcuno rappresenta un tabù nella relazione, qualcosa che non dovrebbe essere provato mai, soprattutto quando rivolto verso le persone a cui vogliamo bene. In effetti l’invidia è, forse, uno dei sentimenti più deludenti in un rapporto e scaturisce dalla frustrazione generata dal non aver ottenuto/non essere riusciti ad ottenere qualcosa che, invece, è stato raggiunto da qualcun altro. Le emozioni sottostanti il sentimento dell’invidia sono molteplici: di base nasce da un sentimento di rabbia per qualcosa che sentiamo di aver perso e che pensiamo di meritare, l’ansia di non riuscire a raggiungerlo mai, la delusione per aver fallito.

IL CONFINE TRA INVIDIA E AMMIRAZIONE

Si tratta di un confine sottile, difficile alle volte da delimitare, poiché la loro distinzione dipende da una terza dimensione: l’autostima. Se volessimo rappresentarle su un grafico, potremmo immaginare lungo l’asse delle x il continuum ammirazione-invidia, lungo l’asse y il livello di autostima percepita dalla persona: all’aumentare dell’autostima percepita corrisponde l’elevazione del livello di ammirazione. Al contrario, quanto più diminuisce il livello di autostima, tanto più aumenta il valore dell’invidia. Pertanto, il modo in cui percepiamo e giudichiamo i successi degli altri dipende in gran parte dal modo in cui percepiamo noi stessi. Quando mi percepisco capace e soddisfatto dei miei obiettivi, i successi altrui non mi disturbano, al contrario mi feriscono quando non sono contento di me stesso. A quel punto l’invidia diventa comoda, perché è la spiegazione più immediata del mio fallimento e del successo altrui. Non percependo la mia capacità, non riesco a percepire la capacità degli altri come sottostante i loro traguardi (quantomeno non la voglio accettare).

L’INVIDIA NORMALE

Da questa prospettiva, se ci fermiamo a riflettere un attimo, l’invidia non discende dalla cattiveria, ma da un’immane sofferenza. Degli invidiosi, ciò che è immediatamente visibile, è il disprezzo per ciò che hanno gli altri, poiché amarlo significherebbe percepire la sofferenza del non poterlo avere. Era per questo che la volpe disprezzava l’uva, definendola acerba: era, quello, un tentativo di non desiderarla più, fallito miseramente è ovvio, ma pur sempre un tentativo dettato dalla sofferenza. L’invidia è il sentimento meno accettato del mondo, meno della rabbia, dalla quale pure scaturisce, eppure è il più provato. Non è assolutamente vero che non si possa provare invidia per un amico o qualcuno a cui vogliamo sinceramente bene, perché i sentimenti non sono razionali e perché, come abbiamo detto, essa non nasce dalla cattiveria, ma da un’insicurezza di fondo, che può far vacillare anche i rapporti più saldi, poiché se non sappiamo amare noi stessi, non riusciamo ad amare l’altro. Ciò che rende l’invidia più o meno accettabile è la consapevolezza. L’invidioso cronico, a differenza di quello occasionale, non è assolutamente consapevole di ciò che sta provando poiché non riesce a guardare con autocritica se stesso. L’invidioso “una tantum”, quando abbia sviluppato un minimo di insight, è capace di fermarsi e chiedersi:

  • cosa mi sta dando fastidio, che lui/lei abbia ottenuto quella cosa, o che io non l’abbia ottenuta?
  • se io avessi quella cosa, mi piacerebbe?
  • cosa ha fatto l’altro per raggiungere quel traguardo, che io non ho fatto?
  • quali sono le circostanze che hanno contraddistinto i nostri diversi percorsi?
  • Voglio davvero quello che l’altro ha avuto, o voglio solo che lui/lei non ne usufruisca, se non posso usufruirne anche io?

Ma la domanda più difficile da porsi è questa:

PENSARE CHE L’ALTRO NON MERITI IL SUO SUCCESSO, MI RENDE FELICE ED è FUNZIONALE AL RAGGIUNGIMENTO DEI MIEI OBIETTIVI?

Chi è in grado di porsi queste domande non solo è molto coraggioso (a nessuno piace mettersi in discussione, tutti vogliamo avere ragione), ma sperimenta, spesso, il senso di colpa per aver provato invidia magari verso quell’amico. Perché non è vero che invidia e affetto non possano coesistere. Ebbene sì, posso essere molto felice per il traguardo di un amico, ma se mi percepisco come un fallito e la mia autostima è sotto i piedi, posso cedere anche io ai morsi dell’invidia. La bravura sta nel riconoscerla per tempo e spostare il focus dalla vita dell’altro alla nostra. Dopotutto una vita piena non lascia molto tempo per osservare quella altrui.

RICORDATE: chi lavora sodo non ha tempo per essere invidioso.

L’invidia, infatti, si nutre di noia e ozio e, contrariamente a ciò che si pensa, nuoce molto più a chi la vive. Impariamo allora a distinguere l’invidia cronica da quella occasionale, accogliendola se la proviamo e accettandola come spia di qualcosa che non sta funzionando come dovrebbe. Se ci soffermiamo sulla sofferenza e la delusione che l’invidioso sperimenta, ci viene quasi voglia di aiutarlo.

Ti fa arrabbiare o scegli di arrabbiarti?

Fino a che punto non possiamo scegliere come stare?

Capita spesso, ascoltando le persone, di sentire la stessa frase: “questa cosa mi fa arrabbiare”; “lui/lei mi fa arrabbiare”. Molto più raramente capita di sentire “mi sento/mi sono arrabbiato/a”. La gestione emotiva si sviluppa sin dall’infanzia, tramite il rapporto con le figure di accudimento e caratterizza in modo sostanziale il modo in cui andremo a relazionarci con le altre persone. La capacità di controllare e gestire le proprie emozioni, tra cui la rabbia, presuppone anzitutto la possibilità di riconoscerle, ovvero riconoscere e accettare che stanno facendo parte di noi, sono nostre, le stiamo provando proprio noi.

Questo passo, seppur banale, è estremamente difficile, poiché presuppone a sua volta ammettere che qualcosa, o qualcuno, stia toccando in qualche modo una parte di noi evidentemente sensibile e fragile.

Significa di fatto accettare che per noi QUELLA COSA è importante.

Allora molto spesso la via più facile sembra quella di giustificare le nostre emozioni con i comportamenti e gli atteggiamenti degli altri, addossando di fatto a loro la colpa di ciò che stiamo provando. La frase “quello che hai fatto mi ha fatto arrabbiare” diventa un atto di deresponsabilizzazione: “è colpa tua se mi sono arrabbiato”. Di fatto però, significa anche dire, implicitamente: “la mia emozione dipende da te, non da me” e questo si ripercuote sulla possibilità di controllare la rabbia, poiché sembra provenire dall’esterno, piuttosto che da una nostra visione delle cose.

Ciò dipende dalla difficoltà di guardare la nostra emozione come il risultato del modo in cui noi stiamo percependo quell’evento, non dipendente solo dagli altri. Capire che quella emozione appartiene a noi e nasce da noi, aumenta la possibilità di gestirla e controllarla, poiché toglie all’altro il potere del determinarla.

L’accettazione delle emozioni in generale e della rabbia in particolare come dipendenti e derivanti da noi, ha anche un altro indubbio vantaggio: permette di scegliere come reagire ad un determinato evento. Pertanto capire che un certo evento SU DI NOI ha scatenato una reazione, sposta il focus dall’azione dell’altro sul nostro vissuto e ci offre la possibilità di concentrarci sulle visioni alternative che una situazione può avere. Un esercizio quotidiano per fare ciò, può essere quello di chiederci, ogni qualvolta ci sentiamo feriti e arrabbiati per le parole o le azioni di qualcuno:

  • “Cosa mi sta dando davvero fastidio?”;
  • “Quanto mi condiziona l’opinione di questa persona?”;
  • “Posso scegliere di sentirmi meno arrabbiato?” ——-> ne vale davvero la pena?
  • “C’è un’alternativa alla rabbia che sto provando?”
  • “Quanto sono obiettiva nel giudicare le azioni di questa persona?”

Queste domande stimolano l’introspezione e aiutano a riprendere controllo sulle nostre emozioni, dandoci una visione più chiara e obiettiva di ciò che sta accadendo. Così potremmo renderci conto che quella frase che tanto ci ha ferito, era magari dovuta ad un errore di interpretazione, oppure ad una nostra errata percezione di quello stimolo. Anche qualora l’evento fosse davvero fastidioso per noi, perché effettivamente negativo, avere una visione più chiara e obiettiva dell’accaduto, diminuisce l’arousal e ci aiuta a comunicare le nostre emozioni nel modo migliore possibile a chi abbiamo di fronte.

Perché ci arrendiamo?

“L’elefante enorme e possente del circo non scappa perché crede di non poterlo fare”

Forse è una delle storie più belle che esistano, una di quelle che, quando le ascolti, cambiano qualcosa dentro di te. La storia dell’elefante incatenato narra del povero animale che, fin da piccolo, era stato incatenato ad un paletto del circo. Nel tempo aveva provato a divincolarsi e scappare, ma era troppo debole per riuscirci. Crescendo era diventato possente e forte, tuttavia non tentava più di scappare: restava fermo immobile agganciato ad un paletto che, adesso, avrebbe potuto spezzare in un solo tentativo.

Perché non lo faceva? Ce lo chiederemmo tutti. Proprio ora che avrebbe tutta la forza di cui ha bisogno, perché non la usa?

Perché la forza, da sola, non è sufficiente, se non c’è la fiducia in se stessi.

Nel momento esatto in cui l’elefantino aveva accettato il proprio destino e si era abbandonato all’impotenza, aveva smesso di provare a sganciarsi dal palo. La storia spiega come una condizione a cui una persona viene sottoposta sin dall’infanzia, può segnare in modo irrimediabile la sua esistenza, incidendo profondamente nella percezione che la persona ha di se stessa e delle sue potenzialità.

Ma la storia spiega anche perché, alcune persone, si arrendono prima di altre.

Tutti sanno che l’elefante ha la forza per divincolarsi dal paletto, in realtà, se volesse, potrebbe farlo con molta più facilità di quanto egli stesso non possa credere. Tutti lo sanno, tranne lui. E non perché l’animale non voglia più essere libero, o perché sia felice così.

Egli, semplicemente, crede che non esista un modo diverso di essere, perché crede di non avere la forza e la possibilità di essere diverso da com’è.

Le persone non si arrendono perché non ottengono risultati, si arrendono quando smettono di credere in ciò che stanno facendo e nella sua possibilità di avverarsi. Ecco perché esistono persone che nonostante infiniti tentativi continuano a provarci, a dispetto della realtà dei fatti, e persone che, al primo fallimento, chiudono bottega. Il numero dei tentativi è solo un numero.

Ecco che la forza, intesa come potenziale, può non essere sufficiente a cambiare le cose, quando non si accompagna alla reale percezione da parte delle persone di poter fare concretamente qualcosa. Questo è ciò che Bandura chiamò AUTOEFFICACIA: la consapevolezza, da parte degli individui, di poter agire concretamente in una situazione e dominarla, non come spettatori passivi, ma protagonisti attivi della propria esistenza.

E l’autoefficacia è la chiave per qualsiasi cosa voi vogliate fare della vostra vita. Ci sono persone che partendo dal nulla hanno realizzato capolavori e persone che, pur partendo avvantaggiate, non hanno realizzato nemmeno la metà di ciò che, potenzialmente, avrebbero potuto ottenere.

Se non ci credete voi, nessuno lo farà per voi. Buona autoefficacia a tutti 🙂

Quello che resta

Spunti e riflessioni di un piccolo week end

Mi trovavo nella capitale per un week end, in vista della tesi di Master. Era dicembre e c’era aria di Natale. Adoro il Natale. Prenotammo un piccolo appartamentino, di quelli curati e semplici. Il proprietario ci spiegò, mostrandocelo, che era stato costruito interamente in legno e alcuni particolari, come ad esempio gli appendiabiti, erano stati realizzati con maniglie delle porte. Persino alcuni soprammobili non erano che legno lavorato così bene che avrebbe potuto assumere qualsiasi forma.

Mi colpì l’originalità di quell’uomo. Con semplici oggetti ti arredava un intero appartamento.

Mi fermai ad osservare un albero, realizzato a parete, con pezzi di legno a formare i rami. Il proprietario mi disse che quello l’aveva fatto con gli scarti… con ciò che era rimasto.

Pensai a quante cose potremmo fare con quello che resta.

Legno, spazio, tempo che rimane.

Mi colpì perché mi chiedevo spesso, in quei giorni, cosa sarebbe stato dopo aver conseguito quel titolo, cosa sarebbe rimasto da fare. Come se ciò che rimane non avesse il suo diritto di avere un posto, un destino, un senso. Quel tizio aveva dato un senso a dei pezzettini di legno ritagliati e ne aveva fatto un albero da arredamento…… e io non riuscivo ad utilizzare in modo costruttivo e sensato ciò che mi rimaneva?

Non era possibile.

Non facevo che guardare ciò che rimaneva di quell’esperienza come i cocci di qualcosa di finito, concluso, quando quegli stessi cocci erano l’inizio di qualcosa che poteva rinascere, prendere altre forme, nuove idee, progetti. Capita spesso di vivere una sensazione di disorientamento quando si conclude un percorso, come se, conquistato qualcosa, non sapessimo dove andare. Dipende da un errore cognitivo, dovuto al fatto che si vede il traguardo come qualcosa oltre il quale non c’è nulla e null’altro da fare, perché oramai siamo arrivati, ed ora? Capita, anche, quando ci si annulla in vista di un obiettivo da raggiungere e si investono tutte le energie per la sua realizzazione. Ma cosa facciamo col tempo che ci è rimasto poi? Con ciò che abbiamo imparato? Ognuno di noi ha i suoi pezzi di legno avanzati, ma c’è un motivo per cui sono ancora lì.

Ciò che “resta” non è necessariamente qualcosa di inutile che non ci è servito, può essere qualcosa che NOI non abbiamo saputo utilizzare al meglio.