Attacco di panico o ansia?

Caratteristiche diagnostiche dell’attacco di panico: quando l’ansia è troppa

Negli articoli precedenti abbiamo parlato dei disturbi d’ansia e abbiamo visto come i sintomi principali dell’ansia siano cognitivi ed emotivi (pensieri irrazionali negativi, evitamento, irrequietezza) e fisici (iperattivazione fisiologica, tachicardia, sudorazione etc). Tutti questi sintomi hanno una matrice evolutiva importante, ovvero sono stati selezionati per garantire al corpo di attivarsi in presenza di un evento stressogeno. L’ansia è spesso esperita tramite sintomatologia fisica, tanto che può essere facilmente confusa, in presenza di una scarsa consapevolezza da parte dei pazienti, con malattie fisiche e cardiache in particolare.

Ansia di stato e ansia di tratto

Da un punto di vista clinico esistono due tipologie di ansia: quella di stato, esperita in situazioni che effettivamente attivano l’organismo e che possono essere definite stressanti e quella di tratto, slegata dal pericolo reale ed esperita in modo praticamente costante, proprio come fosse un tratto della personalità. A differenza della prima, che quando non eccessiva è anzi utile a fronteggiare gli eventi, la seconda è maggiormente vincolante per chi la esperisce, poiché appare in effetti non solo sproporzionata rispetto al reale pericolo, ma per un tempo significativo.

Questa distinzione è importante per capire la differenza tra ansia e attacco di panico. Talvolta i pazienti non sono in grado di comprendere cosa provano e definiscono panico un semplice attacco d’ansia, magari molto intenso. l’attacco di panico è in realtà, per chi lo ha provato, praticamente impossibile da confondere con una semplice ansia generalizzata.

Sintomi dell’attacco di panico

La sua comparsa è sempre improvvisa e si manifesta con una sensazione di paura, quasi di terrore e disagio intensi, con una costellazione di sintomi perlopiù somatici quali: palpitazioni, tachicardia, sudorazione profusa, tremori, sensazione di non riuscire a respirare, dolore/fastidio al petto, vampate di calore o brividi di freddo, vertigine, dolori addominali e nausea, sensazioni di formicolio ed episodi di derealizzazione/depersonalizzazione (sensazione di irrealtà e di distacco dalla realtà). Si associano paura di perdere il controllo e di morire, in presenza della sensazione come se qualcosa di brutto stia per accadere. Secondo il DSM-V, almeno 4 dei sintomi devono essere presenti perché si parli di attacco di panico.

Tutti i sintomi di un attacco di panico esordiscono e si esauriscono in pochi minuti, mentre un episodio d’ansia può durare molto più a lungo ma avere un’intensità ridotta.

Un’ulteriore precisazione riguarda la frequenza degli attacchi e il loro andamento, infatti se nel periodo successivo essi sono seguiti da preoccupazione intensa e da una significativa compromissione del funzionamento della persona su più livelli, si potrebbe essere innescato un disturbo da panico. In ogni caso tutti i sintomi presentati non devono essere correlati all’assunzione di sostanze o farmaci, né ad un concomitante disturbo mentale).

Pertanto la differenza tra un “semplice” episodio ansioso e un attacco di panico, dipende sia dall’intensità dei sintomi che dalla loro durata, sia dalla loro correlazione con gli eventi esterni e la personalità dell’individuo. Infatti mentre alcune strutture di personalità possono essere maggiormente propense ad episodi di ansia, gli attacchi di panico possono presentarsi anche in personalità non particolarmente ansiose (o che comunque non hanno una storia anamnestica carica di disturbi d’ansia) e molto diverse tra loro. Sta allo Psicologo, dopo un’attenta anamnesi, fare una corretta diagnosi e proporre un piano terapeutico adeguato.

Il problema della consapevolezza

A causa della connotazione prevalentemente somatica degli attacchi di panico e, talvolta, anche di un attacco d’ansia intenso, i pazienti si recano al pronto soccorso o alla più vicina guardia medica, in preda alla paura di una patologia cardiaca o di una malattia sottostante. In assenza di un corretto inquadramento diagnostico e di un’assistenza specialistica psicologica al riguardo, si rischia un sovraffollamento di strutture dove richieste di aiuto come queste non possono trovare sempre spazio, sia per situazioni di emergenza prioritarie che per mancanza di personale adeguato. Sono ancora pochi i PS in Italia che offrono, ad oggi, un servizio di assistenza psicologica.

Per questo diventa importante sensibilizzare la popolazione sul ruolo che gli psicologi hanno nella diagnosi e nella cura di questi episodi (che sono molto più frequenti di quanto si possa pensare) e parallelamente potenziare i servizi offerti sul territorio.

Cibo e regolazione emotiva

Quando il cibo regola le emozioni, oltre la fame: il contributo psicologico alla nutrizione

Il rapporto tra cibo ed emozioni è un argomento oramai attuale, molti sono stati e sono tuttora gli studi che spiegano come il modo in cui ci approcciamo al cibo la dice lunga su come stiamo. Uno degli aspetti più interessanti dell’alimentazione è come questa sia in grado di influenzare lo stato emotivo degli individui, ma anche di essere influenzata a sua volta dallo stato mentale. Ciò che è ancor più rilevante è che questo stretto legame si definisce nei primissimi anni di vita del bambino.

Il cibo come premio o punizione

I cibi non sono tutti uguali, è risaputo e abbastanza ovvio che esistano cibi maggiormente accattivanti soprattutto per i più piccini, tanto da diventare, in alcune famiglie, parte integrante del pasto, soprattutto lo spuntino. Proprio la natura di alcuni cibi dolci, anche e soprattutto in termini di consistenza (morbida perlopiù) li rende adatti a diventare dei regolatori del comportamento, utilizzati come rinforzo al fine di convincere il bambino ad adottare una certa abitudine. Il bambino in questo modo viene premiato tramite la possibilità di ottenere un alimento gustoso, oppure punito, quando questo alimento gli viene sottratto o sostituito con uno meno gradito. Questa tipologia di approccio al cibo (che di solito si osserva radicata nella famiglia di origine) insegna al bambino due cose:

  1. i cibi che mi piacciono sono gli stessi che mi fanno bene;
  2. il cibo risolve i miei problemi.

Nel primo caso, infatti, il bambino attribuisce ai cibi ricchi di zuccheri (di solito quelli più utilizzati come deterrenti per rinforzare un dato comportamento o ridurne un altro) quelle proprietà benefiche che in realtà non hanno, oltre al fatto che proprio perché così buoni rischiano col tempo di attivare in modo anomalo circuiti neuronali deputati alla ricompensa, creando quel famoso fenomeno per cui “zucchero chiama zucchero”: quanti più cibi dolci mangiamo tanto più ne abbiamo bisogno, con ovvie compromissioni sulla salute.

Nel secondo caso il discorso diventa meramente psicologico, ovvero “il cibo non regola la mia fame fisica, ma la mia fame psichica“. Se infatti per avere il mio cibo preferito devo comportarmi in un certo modo, significa che IO MERITO quel cibo solo se mi comporto bene; se mi comporto male imparo a privarmene. Il cibo smette così di essere un modo per nutrirsi e sfamarsi, diventa invece un regolatore di emozioni e comportamenti e questo può creare, in alcuni individui e in associazione a più circostanze, terreno fertile per l’instaurarsi di disturbi alimentari.

L’alimentazione consapevole

Ciò che fa diventare il cibo una risorsa è la possibilità di sceglierlo consapevolmente, non in base a ciò che in quel momento sentiamo possa appagare un bisogno emotivo, (poiché la fame NON è un bisogno emotivo, bensì fisico), ma in base a ciò di cui il nostro corpo ha bisogno per nutrirsi. Naturalmente, affinché questa consapevolezza esista, la persona deve aver imparato a distinguere un bisogno fisico da un bisogno emotivo. I soggetti in cui questa consapevolezza manca, hanno imparato invece a regolare le loro emozioni tramite ciò che mangiano ed è frequente osservare che il più delle volte ciò che mangiano (e il modo in cui lo fanno) riflette esattamente ciò di cui hanno immediatamente bisogno. Ecco allora che i cibi dolci tornano ad essere sinonimo di affetto, attenzioni; i cibi dalla consistenza morbida un bisogno di contatto e sensibilità; ingurgitare velocemente il cibo senza masticarlo può riflettere un bisogno estremo di colmare un vuoto, mentre eventuali condotte eliminatorie dopo (frequenti in pazienti bulimiche e talvolta anoressiche) evidenziano il senso di colpa per aver “ceduto” ad un bisogno psico-fisico.

Ecco allora che la consapevolezza, intesa come conoscenza di se stessi, capacità di autoregolarsi e delle proprietà nutritive dei cibi, diventa la chiave per una sana alimentazione, propedeutica per l’inizio e il proseguimento di una dieta alimentare.

La stretta correlazione tra psicologia e nutrizione rafforza la necessità di una presa in carico globale dei pazienti, in un’ottica multidisciplinare e collaborativa.